27 OTTOBRE 2007
Non mi è facile parlare oggi di Mario Di Iorio. Devo, con parole semplici, sciogliere il groppo dei ricordi; dell’allievo alla scuola d’arte e poi dell’amico che con me condivideva la passione per la pittura. Fuori da impegni di studio o di lavoro era a casa mia. Esuberante, sorridente. Mi sembra ancora di sentire i suoi commenti coloriti e ironici sulle sue esperienze prima da studente all’Accademia di Belle Arti a Venezia e poi assistente alla cattedra di pittura dell’Accademia di Brera. Ricordo i dubbi, i crucci che mi confidava sull’ultimo lavoro che aveva in cantiere e che per lui era una ragione di vita.
Aveva iniziato con l’astrattismo geometrico per poi approdare, sotto l’influsso di Vedova, all’espressionismo astratto. Fedele a questa tematica aggrediva le tele con ampie pennellate gestuali, graffi, macchie, colature sgorbi dissacranti e vitali.
Era apparentemente efficiente e volitivo, ma intimamente apprensivo; nella natura e nella società degli uomini paventava ferocia e violenza che esorcizzava sulla tela col contrasto violento di bianco e nero. Ricordo particolarmente due grandi tele, lavori forti e intensi pur nella loro semplicità. Una serie di sciabolate di nero su fondo grigio, gettate alla brava; essenziali, ogni elemento del quadro col valore della necessità.
Molti altri dipinti hanno questa perentorietà anche se le opere di Di Iorio non sono – e non vogliono essere – accattivanti: sono denuncie che vanno accettate per la loro immediatezza e l’estrema sincerità.